Un viaggio tra la vita vera di Varanasi

Oggi è stata una di quelle giornate talmente intense e difficili da condividere usando solo parole. Inizio con la sveglia alle 5, alle 5-30 ero già sui Ghat. Mi incammino nel mio posto.

Cammino con le braccia conserte dietro la schiena. Calma.

Tra i viali stetti di Varanasi arrivano i primi “Namastè Didi” dai negozianti che mi conoscono…

INDICE

    I cani mi vengono incontro e mi salutano. Tutti.

    Ci diamo il buongiorno. È diventato il nostro rituale.

    Il mio posto è una panchina appartata su Maharaja Ghat, il crematorio più piccolo che c’è qui a Varanasi. Prendo un Chai e mi siedo. Resto un po’. Respiro.

    Apro gli occhi e di fronte a me c’era Mukesh che mi faceva segno di raggiungerlo.

    Ne avrò rifiutati altri 10 di inviti prima (l’India è così, tutti ti invitano a fare tutto, ma spesso capita che sia solo una perdita di tempo) ma quello invece l’ho accettato. Attraverso il Ghat e lo raggiungo. Mukesh vive li da 2 mesi sul Ghat di Varanasi, pulisce due volte al giorno i due piccoli templi dedicati a Kali e mentre chiacchieriamo e beviamo il mio secondo Chai, mi chiede a quale casta appartengo. Prendersi cura dei templi è il suo Dharma, la sua vocazione. Rimango sbalordita dalla sua devozione, dalla meticolosità che usa nel pulire e ridipingere ogni giorno, due volte al giorno, quei templi e tutte le sue statuine.

    Non aspira ad altro. Non chiede altro. Ho avvertito nei suoi occhi la sua pace. Chiedo a Mukesh se posso dare una mano in qualcosa. Mi sorride e mi dà uno straccio, un secchio con acqua del Gange e una piccola brocca di ottone. “Clean mama’s Kali house”. Obbedisco ed inizio a pulire il pavimento dai fiori secchi. Provo a fare del mio meglio nonostante il dolore al costato. Quando ho pensato di aver finito, lui è venuto e ha pulito due volte.

    Attorno a noi c’erano altri Baba, persone dai 60 anni in su e alcuni giovani. In quella piccola comunità ho percepito chiaramente la divisione delle caste. C’era un ragazzo probabilmente più grande di Muk che andava avanti e indietro sui grandoni a prendere l’acqua, comandato da tutti, si lavava le mani al di fuori della zona del tempio. Mi è stato subito chiaro il suo posto.

    Finite le pulizie e riallestito l’altare, mi arriva in mano un tamburo, sempre di ottone e una mazza per suonarlo. Inizia la Puja.

    Uno dei Baba Ji che era vestito solo con un grande telo bianco, conduce la cerimonia. Alcune persone si avvicinano per partecipare ma restiamo comunque un numero raccolto. Niente turisti, nessuna macchina fotografica o telefono, solo noi, scalzi, puri, tra incensi, strumenti musicali, canti, mantra, fuoco, mama Ganga e l’alba, Kali, Shiva, l’energia del burnin ghat e il potere l’universo…era tutto lì.

    Ho sentito tutta questa energia! Potente. Avvolgente. Ho avvertito pienezza vedendo i loro volti cantare ad occhi chiusi inni d’amore e devozione!

    Finita la cerimonia tutti gli indiani si siedono sotto un riparo di fortuna e mi invitano a sedere semplicemente battendo la mano per terra accanto a loro. Ringrazio e accolgo ancora una volta l’invito. Beviamo Chai, mangiamo dolci, ci benediciamo con il fumo sacro e tutti fumiamo marijuana dallo stesso cilum. “È il più anziano ad accenderlo”, ha 82 anni! Resto seduta a terra in questo spaccato così reale di quotidianità indiana.

    Sento il privilegio di stare seduta in quel posto. Resto ancora seduta. Metabolizzo.

    E come al solito, piango.

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